Archivio mensile: febbraio 2020

Non superare le dosi consigliate di C.R. d’Orsogna

Mi stanno arrivando tante segnalazioni di persone che hanno letto i libri che ho recensito e di altre che vorrebbero che scrivessi di libri che hanno letto o che vorrebbero leggere. Il blog funziona!!! E vi ringrazio tanto.

Il libro di oggi “Non superare le dosi consigliate” mi è stato segnalato da Elena, collega con cui condivido ogni tanto viaggi da e per la Svizzera.  Lettrice accanita! Che ringrazio!

“Non c’è un problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così lei mi dà il Dulcolax ogni sera perché sono una bambina grassa. Due compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra il Dulcolax e una bambina grassa visto che non dimagrisco….”. C’è un peso che non puoi perdere, anche quando l’hai perso tutto. Matilde lo sa: la mamma, bulimica, passa le giornate a vomitare; lei ha cominciato a ingrassare quando aveva sei anni ed è affamata da una vita. A scuola elemosina biscotti, a casa ruba il pane, e intanto sogna che gli taglino la mano. Ottanta chili a sedici anni, a diciotto quarantotto; Matilde va in America a studiare, splende, ma la fame e la paura le vengono dietro. Finchè dopo la morte della madre, il tracollo finanziario del padre e una relazione violenta, supera i centotrenta chili. E quando esce, c’ è sempre qualcuno che la guarda con disprezzo. Allora Matilde si chiude in casa per tre anni, e suoi social si finge normale. Ma che vuol dire normale? Un romanzo crudo e potente tra due lingue e due culture, tra gli anni Settanta e oggi. Un libro vorticoso tra perfezionismo, autolesionismo, menzogna e dipendenze.

Succede spesso che io inizi le mie recensioni riportando le presentazioni scelte dalla casa editrice. E poi mi capita di fare delle ricerche qua e là: questo libro è stato preceduto da un articolo scritto dalla stessa autrice e apparso su “7” il supplemento del Corriere della Sera, dal titolo “Storia della mia grassezza ( e di come ho deciso di non abbozzare più)”. L’articolo ha avuto così tanti lettori che ne è nata una rubrica e poi appunto, il romanzo.

Ho trovato moltissimi contributi, di donne che si sono identificate, che dichiarano che avrebbero potuto scrivere la stessa storia e altre che, al contrario, dicono di aver capito poco di questa donna. Che si tratta di uno scritto irto di ostacoli, ripetitivo, che sono 250 pagine che lasciano il lettore esausto. Altre che, in riferimento alla protagonista Matilde, dichiarano che non conquista, che non lega a sé, che non riesce a far empatizzare con il suo dolore. Che non trasmette, che non lascia nulla a chi la incontra e che anzi ci si dimentica di lei appena si termina la lettura, con la sensazione di essere finalmente liberi.

Per quanto mi riguarda, sono altre le considerazioni che voglio condividere con voi.

A pagina 35, l’autrice fa una citazione che torna spesso nel corso del romanzo: Innocence, or ignorance, direbbe Alice Munro nel racconto che ha segnato la mia vita, An Ounce of Cure. Mi sono incuriosita. Il racconto di cui parla si trova nella raccolta “Danze delle Ombre felici” della Munro, nella traduzione italiana il titolo è Il rimedio. Poco più di 10 pagine. Parla di una ragazzina, adolescente, di indole spinosa. Di una casa in cui non si beve, o meglio si beve fuori. E di un rapporto con la madre per la quale l’ignoranza o l’ innocenza se preferisci, non è sempre la meraviglia che la gente crede, e ho paura che potrebbe rivelarsi un pericolo per una come te. Nel racconto, la protagonista vive una delusione d’amore e mesi di autentica disperazione seppure in larga misura autoinflitta. La madre, che si accorge che qualcosa non va, le compra dei ricostituenti a base di ferro, le chiede della scuola. Una sera, impegnata come baby sitter, a contatto con sentimenti di solitudine e tristezza, la ragazza si ubriaca, sta male, la scoprono, la rimproverano, la riportano a casa. Per tutti irresponsabile, le sue tristezze vengono usate dalla madre per non fare brutta figura con i vicini. Ci fu però un risvolto positivo e meravigliosamente inatteso in questa vicenda (….) Che cosa fu dunque a riportarmi coi piedi per terra? Fu la tangibilità atroce e ammaliante del mio disastro; fu vedere “come andavano le cose”. Non che mi fosse piaciuto; ero timida e tutta quella risonanza mi fece soffrire molto. Ma il concatenarsi dei fatti di quel sabato sera mi affascinò; ebbi la sensazione di aver gettato un’occhiata sulla prodigiosa, devastante e spudorata assurdità con cui si improvvisano le trame della vita, a differenza di quelle dei romanzi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. E, a proposito dell’ultimo incontro con il ragazzo oramai adulto: Notai che mi stava guardando con l’espressione più simile a un sorriso memore che le circostanze permettessero. E capii che lo aveva sorpreso il ricordo vuoi della mia devozione, vuoi del mio modesto scheletro nell’armadio. Ricambiai con un’occhiata cortese e priva d’intesa. Sono una donna adulta, ormai; ciascuno si dissotterri i propri, di scheletri.

In generale, per rimedio s’intende un farmaco o un trattamento medico indicato per alleviare o combattere una malattia. Provvedimento più o meno efficace, diretto a sanare una condizione negativa o sfavorevole. Alleviare, combattere, sanare. Di comprendere non vi è traccia.

Penso alla protagonista del racconto della Munro che vede gli adulti bere dell’alcool prima di uscire, erano tutti piuttosto allegri. Li vede traccannare gli aperitivi come fossero bibite. E penso a come spesso, quando entriamo in contatto con sofferenze e vissuti di tristezza, in maniera un po’ infantile,  facciamo quello che vediamo fare agli altri. Per uscire anche noi piuttosto allegri (innocence or ignorance). E penso alla protagonista Matilde che vede la mamma vomitare, che la vede prendere del Dulcolax, che la chiama cretina, che le da lo stesso lassativo perché è grassa. L’alcool e il cibo, il vomito e i lassativi come rimedio.

Per tutta la lettura di “Non superare le dosi consigliate” mi sono domandata cosa abbia spinto l’autrice a scrivere la propria storia, quelle 250 pagine piene di parole, di cose che accadono, che stancano, che quasi ti allontanano per quanto sono vere, dirette e piene di dolore.

Mi sono detta se non fosse proprio nel tentativo di passare da quell’ innocence or ignorance a, come alla fine del racconto della Munro, “vedere come andavano le cose”. Comprenderle. Promuovendo anche nel lettore la spinta a farsi domande, a cercare di comprendere, creare legami di senso.

Perché un rimedio senza comprensione non porta al cambiamento. A crescere. A dissotterrare i propri scheletri nell’armadio. Perché gli scheletri possano riposare in pace. Nel posto giusto.

Il segnalibro, un’ironica caricatura….

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Per chi fosse interessato, anche il libro della Munro dove trovate il racconto citato. Buona Lettura al prossimo libro!

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Lo Straniero di Albert Camus

Nell’edizione Bompiani, il libro viene presentato così: pubblicato nel 1942, Lo straniero è un classico della letteratura contemporanea. Protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto – il processo e la condanna a morte- senza cercare giustificazioni, difese o menzogne. Meursault è un eroe “assurdo”, e la sua lucida coscienza del reale gli permette di giungere attraverso una logica esasperata alla verità di essere e di sentire. E ancora, nell’introduzione di Roberto Saviano, questa breve descrizione: Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Ci viene presentato quando apprende la notizia della morte dell’anziana madre, e sin dal principio anche noi siamo vittime di un sentimento cui non riusciamo ancora a dare un nome: siamo straniati dalla impassibilità di Meursault. Non ci piace Meursault, è apatico. È tanto diverso da come noi immaginiamo noi stessi. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Tutt’altro, negli ultimi momenti della sua vita ragiona su quanto tutto sia assurdo, su quanto l’universo sia insensibile e indifferente verso l’umanità. L’unica consolazione si trova forse nel destino comune.

Al termine della lettura, rileggo la presentazione: mi sembra di aver letto un altro libro. Per questo decido di approfondire.

Il titolo originale dell’opera è L’Etranger. E’ stato tradotto con Lo Straniero. Il termine “straniero” etimologicamente è legato al termine “estraneo”. La particella “stra-“ di parole quali “stra-niero”, “estra-neo”, “stra-no”, “stra-niante” derivano dalla forma latina che indica ciò che sta fuori in senso fisico, rispetto a ciò che sta dentro.

Albert Camus nacque nel 1913 in Algeria. Francese in Algeria. Francese che vive tra francesi d’oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori. Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Lo straniero.

C’è dell’altro nella sua biografia. Camus nacque dall’amore di una madre che non sapeva leggere e scrivere e da un padre che conobbe solo in fotografia. Sua madre faceva le pulizie mentre suo padre, operaio in una cantina agricola, ferito durante la battaglia della Marne, morì con “il cranio aperto. Cieco e agonizzante durante una settimana […]”(“L’Envers et l’Endroit”, Il Rovescio e il Diritto 1938) servendo “un paese che non era suo”. Camus scrisse nella prefazione di 1958 “Solo col silenzio, col riserbo, con la naturale e sobria fierezza, questa famiglia che non sapeva nemmeno leggere, m’ha dato allora le lezioni più alte, che durano sempre”.  Il piccolo Albert crebbe con la madre affettuosa che parlava poco e il fratello maggiore Lucien ad Algeri nel quartiere popolare di Belcourt. Scriverà più tardi: “Non ho imparato la libertà da Marx. Ѐ vero: l’ho imparata dalla miseria”. Notato dal suo istitutore, Louis Germain e incoraggiato a leggere dallo zio macellaio appassionato di letteratura, Albert ottenne una borsa che gli permise di seguire studi superiori e poi universitari. Con il ruolo di portiere, fece parte della squadra di calcio “tanto amata” del Racing universitario di Algeri. Quando aveva appena 17 anni, nel 1930, Camus contrasse la tubercolosi. La malattia non gli permise di scegliere la carriera del calciatore. Gli impedì di passare il concorso per diventare insegnante di ruolo nella scuola superiore e all’università. Un suo grande desiderio. E nel 1939, ancora per la malattia, il suo arruolamento venne rifiutato.

Scrisse L’Etranger in quegli anni. L’estraneo. Forse avrei scelto questo titolo per il libro. Forse era così che Camus intendeva il suo Meursault.

Vi chiederei ora di rileggere il libro alla luce delle note biografiche, ripensando a quella indifferenza come alla necessità di vivere le proprie emozioni come qualcosa di estraneo, il mondo interno come terra straniera. Per non soffrire, per sopravvivere. Senso di estraneità, essere stranieri. Torniamo al significato etimologico di queste due parole, dall’opposizione marcata e netta tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Ogni evento o persona che minaccia i nostri confini suscita in noi paura.  Mi sembra che l’indifferenza di Meursault/Camus in realtà rappresenti il tentativo di mettere fuori quelle emozioni che rischiano di far soffrire quando la vita non va come dovrebbe. Quando alcune circostanze del tutto casuali, ti costringono a rivedere tutto: la vita senza un padre, la malattia che ti toglie ogni possibilità, i tuoi desideri.

Non ho provato antipatia per Meursault, mi ha disorientato all’inizio. Ma grazie allo stile e alla scrittura di Camus è possibile sentire tutte le emozioni che lui non si può permettere, che non vuole sentire: le trovi nelle descrizioni, tra le righe, nei profumi appena accennati, negli odori, nei rumori. Le trovi quando al funerale della madre, in presenza di una donna che piange, l’unico suo pensiero: avrei voluto non sentirla più. Non è indifferenza. Ti trovi ad emozionarti quando descrive il rapporto con Marie, la donna che lo vorrebbe sposare: ne descrive i gesti, i profumi, alcuni dettagli dell’abito, dello sguardo. Lo spostamento sui dettagli, sulle cose inanimate, sulle sensazioni del corpo forse un modo per non entrare in contatto con le parti più umane, più emozionanti. Che legano. E che rischiano di far soffrire.

L’uccisione dell’arabo arriva quando le cose che succedono sono belle, piacevoli, quasi desiderate: Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, il silenzio eccezionale di una spiaggia dov’ero stato felice. Allora ho sparato altre quattro volte su un corpo inerte nel quale le pallottole si conficcavano senza lasciare traccia. Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità.

Quel gesto non è assurdo, Meursault non è un eroe “assurdo”. Quel gesto accade, ma non per caso: credo che abbia a che fare con il disperato e inconsapevole terrore della propria felicità. Farsi responsabile della propria infelicità per non trovarsi impreparato, ancora una volta, smentito dalla vita.

Ed è proprio durante la sua prigionia che Meursault entra in contatto con le sue emozioni, con il suo sentire ed è grazie alla scrittura di Camus che ci arriva tutta quella intensità: uscendo dal palazzo di giustizia per salire sul cellulare, ho riconosciuto per un breve istante l’odore e il colore delle sere d’estate. Dall’oscurità della mia prigione mobile ho ritrovato a uno a uno, come dal fondo della mia stanchezza, tutti i suoni familiari di una città che amavo e di un’ora in cui mi capitava di sentirmi contento. Il richiamo degli strilloni nell’aria già distesa, gli ultimi uccelli nei giardini, il grido dei venditori di sandwich, il lamento dei tram sui tornanti della città alta e quel rumore del cielo prima che la notte si rovesci sul porto: tutto ciò ricomponeva per me un itinerario da cieco che mi era ben noto prima di entrare in prigione. Sì era proprio l’ora in cui, tanto tempo fa, mi sentivo contento. Ad attendermi, all’epoca, era sempre un sonno leggero e senza sogni. E tuttavia qualcosa era cambiato, poiché, con l’attesa dell’indomani, quella che ho ritrovato è stata la mia cella. Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sonni innocenti.

Non ci sono altre parole. Un libro da leggere. Nel proprio sentire si raggiungere la completezza.

Stava lavorando su un grande racconto autobiografico Le Premier Homme (Il primo uomo incompiuto, 1994) quando Albert Camus morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto guidato dal suo editore Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto ferroviario non utilizzato: si crede avesse pensato di compiere quel viaggio in treno, cambiando idea solo all’ultimo momento. André Malraux gli aveva appena proposto di prendere la direzione di un teatro parigino che avrebbe chiamato Nouveau théatre (Nuovo Teatro).

Il segnalibro: “Era ricoperto di pietre giallastre e di asfodeli bianchissimi sul blu già intenso del cielo

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